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I racconti della kokeshi

Ero già al mio secondo Vat 69. Fuori il temporale imperversava ed io brindavo alla fine del mio matrimonio.

Gran bel modo di festeggiare quest’americanata chiamata Halloween, mi dissi tra un sorso e l’altro.

Proprio quella mattina avevo firmato le carte per il divorzio. Dopo vent’anni, io e mia moglie, Veronica, eravamo diventati due estranei che condividevano però una figlia, triste memento – suo malgrado – del mio fallimento più grande. Non mi sarei mai liberato di Veronica. C’erano gli alimenti, le spese extra, la famiglia che si doveva riunire nelle occasioni socialmente più rilevanti. Ero in trappola. Dannatamente, disperatamente, in trappola.

La non-fine di quella storia mi aveva messo k.o. E per un attimo, compresi i tristi tormenti dei fantasmi, quelle paradossali figure letterarie tanto in voga. Non mi ero mai voluto occupare degli scrittori con la vena dark. Tutti matti come cavalli, tutti alle prese con qualche demone personale. Odiavo la narrativa del terrore. Era logora, satura, piena di cliché. Ma la mia era solo l’opinione di un misero editor di provincia. Mica ero un agente letterario, scopritore di talenti radical chic come il nuovo amichetto di Veronica?!

Aveva ragione la mia saggia figlia, Anita. Il mio livore per gli intellettuali raffinati stava raggiungendo nuove vette inesplorate.

Già, Anita… e un lampo attraversò la mia mente. Guardai l’orologio, si era fatto tardi. Dovevo andare a prendere la mia dolce pargola che si trovava a casa di una compagna di scuola, a fare baldoria mascherata da strega. Pagai velocemente il conto.

Nell’attraversare la sala che risuonava di motivetti stridenti e di falsa ilarità, urtai contro il tavolo di due eccentrici avventori, fradici a causa del temporale che forse li aveva colti di sorpresa, due elementi totalmente estranei in quel contesto pretenzioso. Troppo alcol, troppe emozioni e l’incedere impietoso della maturità con i suoi primi acciacchi. Chiesi scusa, ma loro nemmeno si accorsero di me.

 “Questo è tipico di te! Vuoi sempre avere ragione e non ascolti mai”, disse l’uomo sulla sessantina, ben vestito, con un elegante trench scuro. Parlava a una ragazza affranta, travestita ad hoc per quella sera, un’eccentrica punk con un giubbotto di pelle e due grandi occhi scuri, cerchiati di nero, forse per vezzo o forse per via della pioggia che aveva fatto colare il generoso mascara, e una bella ferita fittizia all’altezza della tempia, pallida come un cencio e molto più giovane di lui. Ma si capiva subito che non era suo padre. Il tono era animato, perentorio, e pur tuttavia celava una dolcezza melodiosa.

Mi raggelai. Soltanto poche settimane prima, quelle parole mi erano state rivolte dalla donna che mi aveva strappato il cuore. Che giocatore di scacchi, il Destino!

“Ti prego, vattene. Ora sono io a dirtelo. Non ti rendi conto che questo sacrificio è inutile?” 

Qualche passo avanti e poi mi fermai all’altezza di un altro tavolo, libero. Mi abbassai fingendo di allacciarmi una scarpa per ascoltare ancora un pezzo di quella conversazione, senza sapere il perché di quella morbosità.

 “Quanto sei stupida! Non ho mai voluto lasciarti. Volevo solo che tu avessi una vita felice, piena di cose meravigliose. Con me non avresti potuto. Perché non lo hai capito?”

Non riuscivo a comprendere il motivo di tanta afflizione. L’amore lacera, gli addii segnano, ma era possibile fino a quel punto? Che domande sciocche, non avevo forse vissuto sulla mia pelle quell’agonia?

Ero in ritardo e a malincuore lasciai i due estranei al loro destino. Mi avviai verso il parcheggio, circondato dai miei fantasmi. La dissoluzione del mio matrimonio era un dolore troppo grande. Tutti continuavano a ripetermi che sarebbe passata, ma quel nodo alla gola sembrava aumentare invece di diminuire. Dove avevo sbagliato? Me lo chiedevo spesso. L’avevo tradita, ma non era soltanto una faccenda di corna, lei… mi disprezzava. Mi aveva sempre disprezzato. Come avevo fatto a non accorgermene prima?

Una voce concitata alle mie spalle mi riportò alla realtà. Era la ragazza del locale.

“Signore… signore… mi scusi. Mi darebbe un passaggio?”

Quelle parole erano abissi di mestizia.

“Dove devi andare?”

“Non importa. Dove sta andando lei, un posto vale l’altro”.

Le feci cenno di salire in macchina. Mi sentivo come un ragazzotto di provincia alla ricerca di un brivido non ordinario nella notte. Come nei film americani. Ma quella disperazione, per certi versi simile alla mia, ricordava piuttosto le pellicole nipponiche incentrate sul rancore, sulle torbide passioni e sulle cicatrici che non concedono requie.

 Una volta dentro, la ragazza scoppiò di nuovo in lacrime. Non sapendo che fare, mi accesi una sigaretta. Ne offrii una anche alla mia strana amica, ma lei declinò l’offerta.

 “Non si dovrebbe mai vivere la fine di una storia da soli. Il rischio è quello di attaccarsi alla bottiglia per non sentire più nulla. È stato così per me, dopo la fine del mio matrimonio. Per smettere con questa dipendenza, ho iniziato a fumare. Anche le sigarette mi uccideranno, lo so. Ma almeno non mi porteranno via la lucidità. Non guardarmi così, non c’è bisogno che tu dica niente. Voi delle nuove generazioni siete così sani e vincenti!”. Volevo farla ridere con una provocazione sagace, ma fallii miseramente.

“Dai troppa confidenza agli estranei, forse questo ti ucciderà”. E mi fissò con uno sguardo enigmatico.

Rimasi di stucco. Era seria? Voleva sdrammatizzare quella situazione con un po’ di humour nero? Spiazzato, le dispensai un’altra banalità.

 “Esci, divertiti, guarda avanti. Sei giovane. Ti rifarai una vita”.

 “No, me la sono giocata. Non c’è un’altra vita”, replicò lei con lo sguardo perso nel vuoto.

“Che vuoi dire?”

Si passò una mano tra i capelli, quasi a farsi coraggio con quel gesto.

“Ho commesso un terribile errore e non posso più rimediare. Lui potrebbe andare via, oltre… ma ha deciso di seguirmi, sperando di proteggermi. Lo ha sempre fatto. Abbiamo fallito. Abbiamo sbagliato fin dall’inizio. Era una storia troppo difficile”.

“Il solito mascalzone sposato, eh?”, commentai con un’aria beffarda e una boria che mal celava il mio stato di profonda inquietudine. Ero una canaglia e un ipocrita. Anch’io avevo tradito Veronica, non avevo alcun diritto di giudicare.

“No, non è sposato. Lui mi voleva lasciare per il mio bene. La malattia contro cui lotta da anni e che torna puntualmente a tormentarlo, e ogni volta con maggiore aggressività, lo ha messo in ginocchio. Così non è riuscito più a vedere un futuro. Per lui. Per noi. É vero, stavo buttando una carriera promettente per lottare al suo fianco, ma era una mia scelta. Sono rimasta orfana molto presto, ho solo lui. Non volevo perderlo e ho fatto una cosa spaventosa”. Sospirò, vinta. “É buffo. Ho cercato disperatamente di tenerlo legato a me sino alla fine, sino alle estreme conseguenze, e adesso non desidero altro che sia lontano da me, libero. In pace”.

E su quelle parole, il nostro uomo si materializzò nel bel mezzo della strada. Frenai di botto, per poco non lo misi sotto. E per poco, noi nella macchina non rischiammo di ferirci. Lui se ne stava lì, dritto e in agguato come un rapace, fermo sotto la pioggia, incurante di tutto.

Iniziai ad avere paura. Avevo sbagliato a darle quel passaggio. Forse erano due squilibrati. Lei era già sul punto di aprire la portiera. Malgrado i miei timori, tentai lo stesso di fermarla.

“Non è mai una buona idea tornare indietro”.

“Non posso più andare avanti. Né oppormi. Lui mi vuole, ancora. Forse siamo destinati a questo epilogo. Insieme. Poveri noi!”. E uscì nella notte.

A quel punto aveva fatto davvero la sua scelta, non potevo farci nulla. Ma fui testimone di una scena che…beh, per un solo istante, mi diede la forza di credere ancora nell’amore. Lui le mormorò qualcosa e spalancò le braccia. La ragazza si perse in quell’abbraccio che sembrò eterno.

L’uomo non era così minaccioso, mi dissi, e lei non correva alcun pericolo. Sorrisi. Sì, forse erano davvero destinati a stare insieme. Si allontanarono nel buio attraverso una stradina laterale, senza salutarmi. Non me la presi. Rimisi in moto.

Il malinconico Borgo Ticino, con le sue caratteristiche casette lungo il fiume, mi attendeva. E pensai che, proprio in una di quelle casette, mia figlia si godeva gli ultimi scampoli di una spensieratezza che non sarebbe durata a lungo. E le augurai di conservare ancora per un po’ quello spirito lieto. La preghiera laica di un padre.

Feci solo pochi metri quando venni richiamato da alcuni schiamazzi e da una piccola folla che si era radunata ai margini della strada. Doveva essere accaduto qualcosa di orribile, forse un incidente. E benché una voce nella mia testa mi consigliasse di proseguire, accostai e scesi dall’auto.

“Che succede?”, chiesi a un anziano che non vedeva l’ora di raccontare per l’ennesima volta l’accaduto.

“Gran brutta storia! Hanno trovato due cadaveri in una macchina. Sono ancora caldi. Omicidio-suicidio. Non vi è dubbio. Io ho fiuto per queste storie, ragazzo mio! La donna deve avergli sparato al cuore dopo una violenta discussione e poi ha puntato l’arma alla tempia per togliersi di mezzo. Una morte rapida, indolore. La polizia sarà qui a breve”.

Un presentimento s’impossessò del mio essere, travolgendolo. Mi feci largo tra la gente. Guardai dentro il veicolo. C’era una giovane donna, con un giubbotto di pelle e il capo leggermente inclinato sulla spalla di uomo, molto più grande di lei. Sembrava che dormissero. Mi avvicinai di più…

No, non era possibile!

Li avevo lasciati pochi minuti prima, felici. Vivi.

Erano loro!

“No, no, no…”, indietreggiai sconvolto. Proprio io, che le avevo sempre disprezzato, ero finito in una storia di fantasmi.    

Perché avevo vissuto questa avventura? Perché le due povere anime avevano scelto di svelarsi a me?

Non lo avrei mai saputo. Forse era tutta una beffa ordita dagli astri.

Corsi via disperato, lontano dall’orrore di quella notte.

Tutti i diritti riservati

Racconto inserito nell’antologia Halloween all’italiana 2023 edito da Letteratura Horror.it

Immagine di copertina: Vampiro Edvard Munch

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