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Sofferto, tribolato, rincorso, osteggiato, vituperato, bramato, come vuole il plot delle grandi saghe d’amore e d’armi, ma alla fine è arrivato. Dopo trentatré anni lo scudetto si tinge di azzurro e Napoli torna a sognare. Nel segno di Diego, a cui idealmente è dedicata questa vittoria storica contro l’Udinese, che giunge a seguito di un campionato portato avanti con brio e con quel tocco di Genio che significa velocità di esecuzione e di intenti e soprattutto gioco di squadra. Già, la squadra e quella voglia matta di fare gruppo, di essere “uno per tutti e tutti per uno” come insegnano i moschettieri, di condividere gioie, dolori e umane cadute, consapevoli che la fisica insegna che non è sempre accelerare e che a un picco segue inevitabilmente la discesa. Un afflato che ha caratterizzato i mesi che hanno preceduto questo match e che è esploso in tutta la sua potenza ieri alla Dacia Arena e allo stadio Maradona dove migliaia di tifosi partenopei hanno seguito dai maxischermi la “Madre di tutte le partite”, dai Quartieri Spagnoli al Barrio di Villa Fiorito, passando per Hyakkendana, in quel di Tokyo, dove si fa ancora del buon jazz e si inseguono le note evitare e inaspettate. Quelle che danno senso alla vita. Ed è quel brivido che non ti aspetti a fare la differenza. Nella vita come nello sport.

I pronostici davano la vittoria “matematica” del Napoli domenica 30 aprile contro la Salernitana o contro la Fiorentina, per i famosi corsi e ricorsi storici, il 7 maggio. Ma il destino, si sa, ama scompigliare le carte. Ed ecco che quella certezza arriva quando meno te l’aspetti. Una sera di maggio, come recita una splendida canzone. Sempre figlia dell’ingegno di questa città.

4 maggio: l’impresa è compiuta.

Napoli ha il suo scudetto e il suo campione. Il mirabolante Osimhen. Una partita, quella contro l’Udinese, non facile, iniziata male, con quel gol malandrino di Lovric al 13′ e che condiziona tutto il primo tempo. In avvio di ripresa però arriva il prodigio, quello incitato e invocato da maghi e fattucchiere, da quell’Amelia che ammalia e seduce all’ombra del Vesuvio, creata dalla fantasia di Carl Barks e che dalla copertina del “Topolino”, creata ad hoc per il Comicon, già festeggiava il Napoli. Amelia ha portato bene. Osimhen segna dopo la bella parata di Silvestri, che era stato bravo a disinnescare il tiro a giro di Kvaratskhelia. È la rete del pareggio, che diventa per assurdo vittoria. Non esistono scienze esatte. Inesorabile, arriva dopo i tre minuti di recupero il fischio dell’arbitro. La scuola è finita, Napoli è Campione d’Italia, la festa può iniziare. Parte quell’urlo liberatorio che ci riporta indietro nel tempo, che supera distinzioni di certo e di razza, le distanze geografiche.

Cori, bandiere sventolate, Vita.

Una gioia sporcata da episodi deprecabili, che nulla hanno a che vedere con lo sport. Quel morto e quei feriti che ci ricordano quanto l’essere umano sia, tra tutti, l’animale più feroce, episodi che mettono ancora più in evidenza la differenza abissale fra i veri tifosi e “gli altri”.

E da Napoli, questo urlo diventa allora più forte e ribelle, perché parla di forza contro le avversità e contro le prepotenze, ed è giunto fino a quelle stradine di Villa Fiorito dove, tanti anni fa, in un altro tempo e mondo, un bambino con lo sguardo incantato sognava una vita migliore. Proprio da qui è partita la sua parabola che ha toccato Napoli, lasciando un segno eterno.

E al nome di Diego si lega la stagione calcistica più bella del club azzurro e forse della città. Difficile dire cosa resti di quell’epopea che ha portato ai primi due scudetti (1987 e 1990) e quanto sia andato perduto. Siamo cambiati noi. E in peggio. Ed è cambiato il mondo del calcio ormai business e catena di montaggio. Lontani dallo spirito irriverente e goliardico degli anni Ottanta, i nostri cuori ora sono più smaliziati, disincantati. Eppure, ieri sera, siamo stati catapultati in un universo pop fatto di palloncini Crystal Ball, capelli cotonatissimi, look di dubbio gusto, e tanta spensieratezza. Quella che ci manca. È stato un attimo, ma è la felicità è fugace come i fiori di ciliegio. Per un istante passato e presente si sono sfiorati, in un passaggio di consegne dolceamaro.

A testa alta, allora, abbiamo festeggiato dimenticando i commenti falsi e cortesi di certi club o le frecciatine che puntualmente vengono lanciate alla città. Napoli non è una Cenerentola pacchiana vestita a festa. Napoli è la sirena Partenope, è Eleonora de Fonseca Pimentel, Napoli è emblema di quel percorso esistenziale fatto di cadute e rinascite. Tutto il mondo ieri era Napoli e parlava la sua lingua (sì Lingua e non “dialetto”).

Ed è così abbiamo chiuso gli occhi e poi li abbiamo spalancati, in un’epopea collettiva e personale al contempo, abbiamo accettato le cose che sono state e attendiamo quelle che saranno mentre una lacrima (furtiva?!) scendeva giù, una che ci consegna alla storia che sarà, quando potremo dire: “Sì, io mi ricordo. Io c’ero”. Ieri come oggi.

E ci ricorderemo sempre di Diego, certi che questa vittoria sia arrivata in alto, in quelle terre insondabili dove si è sempre giovani e finalmente felici. Trentatré anni dopo è ancora una sera di maggio.

E’ questo il Tempo.  Il nostro.

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