Oldenburg e il cibo come metafora del perturbante nella società contemporanea
La mela di Grimilde
Un giorno, interrogato sul legame fra arte e vita, Claes Oldenburg, fra i maggiori esponenti della Pop Art , affermò: “Sono per unʼarte che prende le sue forme dalla vita, che si contorce e si estende impassibilmente e accumula e sputa e sgocciola, ed è dolce e stupida come la vita stessa. Sono per lʼartista che sparisce e rispunta con un berretto da muratore a dipingere insegne e cartelloni.”
Con questa corrente, che nasce e matura negli anni Sessanta del Novecento, e sulla scia delle grandi provocazioni portate avanti, decenni prima, da artisti come Marcel Duchamp e Man Ray, l’opera d’arte viene, in un certo senso, ʻʻliberataʼʼ dalle convenzioni (ma lo è davvero?!).
Si vuole, dunque, dare dignità intellettuale a tutto ciò che è ritenuto basso, dall’arredo kitsch ai generi alimentari. Una volta sollevato il velo, allo spettatore- fruitore non resta che interrogarsi sulla valenza di questa operazione, riscoprendo nelle sale dei musei e delle gallerie, un pezzetto della propria, sordida, becera e talvolta immonda, quotidianità, in una perturbante sospensione del giudizio. Sì, perché è bene tenerlo a mente, gli artisti pop propongono un’immagine della realtà asettica, in cui l’aspetto critico è abolito, facendo invece leva, con estrema consapevolezza ed un pizzico di sano disincanto, su quel diabolico riflesso rassicurante, che il pubblico disperatamente cerca e in cui rivede le proprie, collettive, umanissime, bassezze morali.
Un’ analisi, dicevamo, paradossalmente acritica che langue, beatamente, voluttuosamente, fra il puro voyerismo e l’ostentazione poco salvifica del sempre più dilagante disturbo narcisistico della personalità. E nel mezzo, scorre la pornografia. Anzi, la porno-anarchia, parafrasando la felice espressione usata dal pedante professore del celebre film “Un sacco bello”, di Carlo Verdone.
L’operazione di Oldenburg arriva dritto dritto ai giorni nostri, al cuore di tutte le nostre nevrosi post-moderne.
Artista svedese naturalizzato statunitense, Claes Oldenburg nasce a Stoccolma il 28 gennaio 1929. Il padre è un diplomatico e la famiglia vive in Norvegia prima di trasferirsi definitivamente a Chicago nel 1936. Studia letteratura e storia dell’arte alla Yale University. Nel 1961 apre il suo studio, “The Store”, per presentare oggetti d’uso quotidiano in gesso. Nel 2002, ottiene la definitiva consacrazione grazie ad un riconoscimento del prestigioso Whitney Museum of American Art di New York.
Oldenburg offre la sua fiaba dark, giocando con uno dei grandi tabù della società moderna (e non solo): il cibo. La sua matrice artistica è colta, complessa, onirica. Sin dalla notte dei tempi, il cibo occupa un posto speciale nell’ immaginario artistico. Nelle opere pittoriche, il pane, ad esempio, rimanda all’Eucarestia, la melagrana alla fedeltà, la mela alla caducità della vita. Il primo a stravolgere il senso e l’uso comune del cibo fu l’Arcimboldo che, nel Cinquecento, realizzò opere bizzarre con frutta e verdura, creando un divertissement originalissimo, ma non frivolo, per la corte asburgica.
Consapevoli di questa lezione, anche gli artisti pop hanno analizzato il rapporto tra cibo e società, metafora ideale dei cambiamenti storici e culturali. Oggi, come l’ostentazione del sesso ha prodotto unʼeccitazione diffusa ma caratterizzata, paradossalmente, da tratti frigidi e quasi casti, così il fornello onnipresente promuove un appetito diffuso che alla lunga ci priverà della fame. Con grande gioia di alcuni stilisti intellettualoidi, per i quali le taglie oltre la 40 sono volgari. Nulla di nuovo sotto al sole: Oldenburg identificava già, per l’appunto e decenni or sono, il vuoto intellettuale della società post atomica con il più corrente, per certi versi volgare, dei generi di consumo, il cibo di massa.
Come abbiamo una “storia dellʼarte di capolavori” riprodotti fino alla saturazione, così avremo, nei prossimi anni, una cucina di eccellenze in grado di realizzare il “banchetto della nausea” imbandito con buon anticipo dagli artisti pop. D’altronde, dal masterpiece al masterchef il passo è breve, anche verbalmente. Proprio come profetizzato da Oldenburg con i suoi dolci colorati, luccicanti, palesemente finti e disturbanti, una mattina nelle vetrine delle pasticcerie sono comparsi incantevoli centrotavola fatti con una stucchevole pasta di zucchero, torte vagamente antropomorfe, con la base di polistirolo (che costituisce il grosso della torta, noblesse oblige!).
Il cake-design ci ha stregato facilmente e noi, come novelli Hans e Gretel, abbiamo ceduto a quelle lusinghe, dimenticando la bontà deontologica della panna e del cioccolato, di tutto ciò che ha rappresentato, almeno per molti di noi, il primordiale senso della felicità. Oltre ai suddetti “crimini”, questa moda ha una colpa ancor più grossa e subdola: è facile, alla portata di tutti. In altre parole, drammaticamente pop.
Torniamo a credere nella dolcezza senza trucco e senza inganno dei dolci di una volta! Perché, senza scomodare Oldenburg o i manuali di filosofia, come avrebbe il nostro grandissimo Albertone nazionale: “Bello tutto.. ma la torta ‘ndo sta?!” .
Con il medesimo tono ridanciano, possiamo interrogarci sulla valenza di alcune provocazioni pseudo-artistiche. Dove sta il contenuto, il sapore, l’essenza, che rendono unica un’opera, in grado – come la fiaba – di continuare a crescere rigogliosa e sempiterna nelle regioni più segrete del nostro cuore?
L’ossessione per la cucina e per l’estetica del cibo, specialmente dei dolci, caratterizzano, in maniera tragicomica, un’epoca in cui gli individui temono la bilancia e sono costantemente a dieta credendo, in tal modo, di suscitare l’interesse di un potenziale partner e, ancora di più, l’ approvazione della collettività, ovvero l’ unico orgasmo che la maggior parte delle persone, completamente anestetizzate e ripiegate su sé stesse, oggi brama davvero.
Questo fenomeno bulimico tout court è particolarmente evidente, non a caso, nella ridondanza di trasmissioni legate al cibo, riprodotto in serie, manipolato all’estremo, come lo sono state – da quel geniaccio di Andy Warhol – la povera Marilyn Monroe o la bella Elizabeth Taylor (quando tutti la credevano morente in un letto d’ospedale), in una perversa ostentazione di quel fittizio respiro orgasmico pur tuttavia da molti ricercato fino allo spasmo nevrastenico. La relazione di un individuo con il cibo, hanno sostenuto in tempi non sospetti gli artisti pop, non è diversa da quella con il proprio corpo. Entrambe, a partire dalla seconda metà del Novecento, si qualificano per la loro palese utilizzazione feticistica. La profusione degli oggetti di facile consumo rimanda, inevitabilmente, a quella delle immagini porno, in un labirinto che, tutto sommato, non vogliamo proprio lasciare. Come i prigionieri bloccati nella caverna, alle prese con le misteriose ombre, al centro dello splendido mito platonico.
La sfera dell’intimo si eclissa a favore di una disinibita presa di posizione del “corpo” collettivo che, al pari del “Re”, non può mai morire o sfiorire ma è cristallizzato in un asfissiante eterno presente (Il Re è morto, viva il Re!) e sente, prova, assaggia (di nuovo il legame con il cibo!!) le medesime sensazioni, senza differenza alcuna, alla portata di tutti e per questo fatalmente adulterate.
E nel tripudio scintillante di questa convulsa, caotica, disturbata, porno-anarchia, la società necrofila mangia sé stessa in un destino che è da sempre, né più né meno, semplicemente ineluttabile. Il quotidiano diviene così, nella sua abbagliante menzogna, l’unica verità. E’ in questi oggetti-feticcio che noi cerchiamo l’assoluzione, il conforto e la nostra identità perduta. Nel mezzo, la variopinta danza della vita che prosegue, incurante delle sventure umane. Nell’arte, come nella fisica, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Conservando una scintilla dei giorni, dei (buoni, cattivi) costumi e degli orrori che sono stati. Ai posteri lʼingrato compito di dare, come sempre, un giudizio estetico e morale, rigorosamente poco indulgente, sul tempo che fu.