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I racconti dell’infingarda fattucchiera

Era un venerdì di festa. Mi aggiravo per Reggio Calabria alla ricerca della Bellezza. Ero arrivata il giorno prima, per un tour nel profondo e vituperato Sud. La passeggiata sul lungomare, al tramonto, mi aveva aperto il cuore, sgombrando la testa dai pensieri e dalle nubi. In lontananza, ma non troppo, lo sguardo indulgente e ammiccante di Messina, mi ricordava un viaggio meraviglioso fatto anni prima, nei luoghi che avevano visto crescere mia zia. Il richiamo delle vestigia del nostro antico passato, della (Magna) Grecia, diventava sempre più forte al ritmo di un po’ di sano e caldo jazz che proveniva da qualche misterioso locale, complice l’odore salmastro del mare che mi suggeriva di visitare il Museo Archeologico Nazionale locale, di ammirare i famosi Bronzi, di fissare quegli occhi vitrei in cerca, chissà, di qualche risposta. E di buoni consigli. Così, dopo una notte al chiaro di luna, mi ripromisi che il giorno dopo sarei andata lì, presa da un incantamento simile a quello dei protagonisti disagiatissimi (del resto, disagiata lo fui anche io) di “Mulholland Drive” del rutilante David Lynch.

Ero a pochi passi dall’ingresso rievocando nella mia mente, attraverso immagini ideali, il fascino di quella classicità mediterranea a me tanto cara, quando l’idillio narrativo/estetico lasciò il passo ad una sordida vicenda dai tratti kafkiani.

Verità o fantasia deviata e deviante? Ancora adesso non saprei dirlo.

Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio mi accolse tra le sue spire, nella sua asetticità austera, in bilico tra gli anni Trenta del Novecento e quelli del Duemila. Per me che vivo di colori, quella visione così perfetta e geometrica provocò il primo moto di ribellione. Tuttavia, avanzai verso la biglietteria a passo veloce, fiera dei miei studi classici e animata dal sogno, dall’utopia, della Magna Grecia. Da brava giornalista, animata dalla voglia di raccontare, di narrare, di mettere nero su bianco le mie emozioni, presi dalla borsa il mio tesserino. Un gesto banale, che non nasceva dalla vanagloria o dalla volontà di scroccare qualcosa che, in un certo senso, mi spettava già di diritto (i giornalisti fanno parte di quella strana categoria che tutti criticano, disprezzano, e che poi cercano a qualsiasi ora del giorno e della notte per un grazie, quando va bene, e a volte neppure per quello), ma da una dovuta, doverosa, prassi deontologica. Ed è a questo punto del cammin di mia vita che mi ritrovai in un vortice di dürrenmattiana memoria (a proposito, consiglio la lettura dello splendido “La panne. Una storia ancora possibile”, da cui è stato tratto un meraviglioso film di Ettore Scola con Alberto Sordi). L’addetta alla biglietteria iniziò a guardare con perizia medica il mio tesserino alla ricerca di una qualsiasi forma di infrazione, sotto il mio sguardo vigile e perplesso. Ed eccola, con somma soddisfazione dell’impiegata, più spietata di un ragioniere di Gallarate, con tutto il rispetto per i ragionieri, la presunta irregolarità. Mancava l’ultimo bollino, quello che confermava il pagamento della quota del 2023. Improvvisamente, ai suoi occhi, diventai non solo l’infida straniera (Medea, ti pensai), ma anche la truffatrice (ultimamente si vive in odore di perenne congiura e tradimento, credendo di capire tutto e non comprendendo invece un bel niente. Così, poi, quando arrivano le vere fregature, scatta la modalità “occhi trasognanti del Sol Levante”, pieni di candore e di beltà, lacustri al punto giusto). Con eleganza e dignità, le spiegai, di grazia, che non era più possibile incollare i bollini perché già da tempo non arrivavano comodamente a casa ma, al massimo, li si poteva scaricare dalla posta elettronica, sottolineando che, per quanto ridotti, e perdendo quindi l’immagine in pixel e in qualità, non li si poteva ugualmente attaccare, ma soltanto stamparli e conservarli a parte. L’addetta fu categorica, il Rubicone “non s’aveva da passare” per codesti loschi individui plutocratici. Le mostrai la regolarità della mia fatiscente persona sulla piattaforma on line, dove risultavo e risulto iscritta, in regola con i pagamenti, ma non fu abbastanza. Era, questo, l’incipit perfetto, lo stesso che presenta, in ogni tempo e in ogni luogo, la Madre di tutte le tragedie. Non era una questione di vile denaro, ma di dignità professionale, quella che mi era, mi è, sempre stata negata pur facendo e valendo molto di più degli altri, come mi è stato detto da gente di comprovato spessore. Provai, allora, in uno slancio eroico nipponico (ancora il Giappone!), a guardare tra le mail, ma la connessione ballerina e la fila di visitatori alle mie spalle, mi impedirono di procedere oltre, per ragioni logistiche e morali. Mi arresi, come Cleopatra, come Vercingetorige, all’evidenza, al momento infausto, al segno dei tempi.

Sbigottita ma indomita, ottenuto finalmente il mio biglietto, che nessuno controllò (la correttezza, quella bella e unilaterale, figlia di un’illuminante burocrazia), presi respiro e iniziai il mio tour tra le sale. I miei occhi rimasero sconvolti. Dove erano finite la passione, l’estro creativo, la voglia di raccontare la Storia, di dipingere e di immaginare un mondo mitico, l’imprevedibilità di quel Fato che, pur nel suo rigore analitico, non ammette linee dritte e pulite? Passavo da una sala all’altra, osservando reperti messi un po’ alla rinfusa, leggendo informazioni scarne, fredde, cercando di dimenticare le luci impietose sparate dall’alto, alla ricerca dei mitici Bronzi. Dopo tre minuti passati in una sorta di cella avveniristica per la “bonifica”, finalmente giunsi da loro. Belli, suggestivi, enigmatici, statuari, ma meno alti di quello che si possa pensare, ancora vivi. E ancora bistrattati. La sala era troppo piccola e formale per raccontare di quel loro tempo magico vissuto perigliosamente. La voce, sempre diversa, che ti invitava a non sostare troppo a lungo nella sala, i commenti beceri, sornioni e immancabili, non rendevano giustizia e soddisfazione a quell’attesa vissuta tra palpiti adolescenziali e romantici, nella fantasia di un Buen Retiro. La caducità dei fiori di ciliegio si presentò, allora, in tutta la sua sconcertante verità e assurdità. Era tempo di andare, come recitava Rutger Hauer in “Blade Runner”. Era tempo di tornare alle forme morbide, lente, elastiche, gentili, di Venere Callipigia. Ma la colpa non è delle stelle, come diceva bene Shakespeare, e neppure dei Bronzi. Siamo noi a fallare. Puntualmente e con un certo autocompiacimento, dimenticando il valore salvifico della lungimiranza. Ma i sognatori non si arrendono, ed è per questo che forse il mondo continua. Malgrado tutto.

Tornerò a Reggio Calabria, ad ammirare il suo splendido lungomare, tornerò in questa terra ammaliante, emblema di tutte le cose che potevano essere e che non sono. Tornerò senza dimenticare perché, da irriducibile romantica, credo in una storia diversa. Fino all’ultimo palpito.

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