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C’è un giorno, ogni anno, in cui il tempo sembra rallentare.
Le voci si abbassano, i passi diventano più lenti, i cimiteri si riempiono di fiori e di nomi. È il 2 novembre, il Giorno dei Defunti: una data che attraversa le generazioni e restituisce senso a una parola che è diventata quasi un tabù: memoria.

Non è solo un rito religioso, né una formalità del calendario. È un ponte tra chi resta e chi non c’è più, un modo per dire che la morte non cancella, ma trasforma. In un’epoca che corre e che rimuove, questa data rappresenta una pausa necessaria: un momento di gratitudine verso chi ci ha preceduto, verso chi ci ha insegnato ad amare, a credere, a resistere, a sbagliare e poi, però, a imparare da questi errori.

Davanti a una lapide o a una fotografia, non celebriamo la fine ma la continuità. Ogni fiore deposto è un “ti ricordo” sussurrato nel vento, ogni candela accesa è una piccola vittoria contro l’oblio.
Perché, come scriveva Cesare Pavese, “si muore una volta sola, ma si dimentica ogni giorno”. E ricordare, allora, diventa un atto di resistenza, un gesto d’amore civile e umano.

Questa ricorrenza non vuole essere il simbolo di un giorno luttuoso, ma rappresenta una rinascita.
In questa data c’è la consapevolezza che, dentro ciascuno di noi, continuano a camminare le voci, i gesti e i sogni di chi abbiamo amato. E che, in qualche modo, andremo avanti. E risorgeremo.

Il 2 novembre è un giorno sospeso, in cui la memoria diventa una carezza: non per trattenere, ma per accompagnare.

Forse la vera pace nasce proprio da questo, dall’accettare che la vita e la morte non siano opposti, ma passi di un’unica danza. In giorni come questo, la leggerezza non è superficialità, è gratitudine. È la capacità di accettare che la vita continua a scorrere, che la luce cambia, che il dolore — se ascoltato senza resistenze — si trasforma in una celeste nostalgia. Non termina, assume una forma nuova. Quella del compromesso che salva.
Ritrovare pacatezza non significa dimenticare: significa imparare a guardare le assenze senza paura, con la stessa tenerezza con cui si osserva un tramonto — sapendo che la luce tornerà, differente, ma sempre splendente. In un mondo che corre e dimentica, ritrovare leggerezza non vuol dire scacciare la tristezza, ma lasciarle il suo posto dentro di noi.

La morte, diceva Totò, è cosa seria. Livella, non conosce condizionamenti, avvolge i corpi, ma svela le anime. E le ipocrisie. Perché oggi si piangono pubblicamente anche quelle morti auspicate, quasi bramate, e quei morti di cui, fino al giorno prima della fatale dipartita, si criticavano en plein air i presunti, o reali, difetti e si sbandieravano eventuali colpe e mancanze ai quattro venti, rigorosamente sui social perché, si sa, oggi è l’unico palcoscenico che conta. Sì, aveva ragione Totò. La morte è cosa seria, la vita no. Eppure, con tutte le sue dicotomie, questa esistenza fragile è un dono. Se tutti sperimentassero la vera sofferenza, il dolore, se tutti visitassero almeno una volta un reparto di oncologia pediatrica, forse non ci sarebbe spazio, o almeno non sarebbe così sterminato, per le tante umane e terrene bassezze. E questo giorno tenta da sempre, invano, di insegnarci anche questo.

Il 2 novembre ci ricorda con dolce fermezza che ogni cosa ha un tempo, e che la memoria non è un fardello ma un modo di continuare ad amare. Le persone che non ci sono più non chiedono lacrime, ma sorrisi e spazio: perché la loro presenza, invisibile ma viva, possa ancora respirare dentro di noi.

Solo allora il cuore si fa più lieve, e anche il ricordo smette di pesare: diventa una mano che ci guida, senza far rumore.

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